mercoledì 22 aprile 2015

corsi e ricorsi storici


Immigrati italiani linciati      Nel 1891 Roma prontaalla guerra contro gli Usa
di Bruno Marolo

Ingiustizia sommaria «I miei uomini - avverte - non possono più difendervi. Nascondetevi dove potete, e che vi aiuti Dio». «Dateci le armi - replicano Charles Matranga e i suoi compari - e ci difenderemo da soli». «No - rifiuta il capitano - cercate piuttosto riparo nella sezione femminile. Vi lascerò qualche minuto per trovare un nascondiglio e poi farò chiudere tutte le porte interne, per ritardare l'avanzata degli assalitori». Con un boato, il portone di quercia si spacca. Irrompono i giustizieri. Tre squadre di venti armati ciascuna perlustrano il carcere, agli ordini di Parkerson, Wickliffe e Houston. Altri quaranta fucilieri si dispongono davanti alla porta sfondata per tenere fuori la folla. Il primo plotone scopre Scaffidi, Macheca e Marchesi padre nel braccio dei condannati a morte. Macheca ha scovato una mazza di legno e si volta per affrontare gli inseguitori ma riceve una scarica di pallettoni in piena faccia. Cade all'indietro stecchito. Un'altra fucilata colpisce Scaffidi nell'occhio destro e gli divide la testa in due. Marchesi, ferito al capo anch'egli, non muore subito. Viene lasciato per ore ad agonizzare sul pavimento. La seconda squadra, informata dalle guardie carcerarie, si precipita al terzo piano, dove sono le celle delle donne. «Di là, di là, sono fuggiti di là», strillano le detenute, in preda a una frenesia di morte. Indicano la scala che scende in un cortile interno. Sei siciliani, tra cui Pietro Monasterio, hanno cercato scampo per quella via ma ora sono in trappola, addossati a un muro del cortile. Il plotone apre il fuoco da cinque metri e smette soltanto dopo aver esploso un centinaio di colpi. Un uomo si accosta al mucchio dei morti e nota che una mano di Monasterio è ancora scossa da un fremito. «Finiscilo», grida qualcuno. «Non ho il coraggio», ribatte l'uomo. Si avvicina allora un suo compagno. Ha un fucile a canna corta, e con uno sparo a bruciapelo riduce in poltiglia la testa del moribondo. Uno degli esecutori si volta per vomitare. Altri ridono. Il terzo gruppo torna a mani vuote. I superstiti sono ben nascosti. Furibondi, i giustizieri frugano in ogni locale, rovesciano ogni branda, sfondano con il calcio dei fucili ogni porta sul loro passaggio. Arrivano così in una cella dove Polizzi, lo schizofrenico, parla con sé stesso, seduto sul pavimento. Cinque uomini lo trascinano nel corridoio e gli sparano tre volte, senza ucciderlo. In un'altra cella, Antonio Bagnetto si finge morto. I carnefici lo mettono al muro per fucilarlo, ma poi cambiano idea. Congo Square è un mare di folla in tempesta. Da venti minuti si sente sparare nel carcere e i 12mila che sono stati tenuti fuori vogliono la loro parte di sangue. Emmanuele Polizzi viene portato in piazza. Respira ancora: un cronista descrive «i lunghi capelli neri scarmigliati, l'espressione idiota resa più intensa dal terrore». Il suo corpo tremante viene passato sopra le teste della massa fino all'angolo di St. Anne Street, dove lo aspetta un cappio appeso a un lampione. Una decina di uomini issano l'impiccato, ma gli applausi della folla si mutano in urla incredule. Polizzi, con il cappio al collo, si è aggrappato alla corda e si sta arrampicando, con la forza della disperazione. Con pistole e fucili, i carnefici giocano allora al tiro a segno, gridando insulti. «Le pallottole - scriverà un giornale - volarono verso la loro missione di morte e diedero al corpo dondolante un'ultima scossa». Degli undici italiani scovati dai giustizieri soltanto Bagnetto vive ancora. William Parkerson ordina che anch'egli sia dato in pasto alla piazza. Questa volta viene scelto un albero per l'impiccagione, ma la corda si rompe e l'uomo piomba al suolo senza un lamento. Forse non vive più quando viene nuovamente appeso, ma c'è ancora chi si diverte a sparare sul cadavere. È finita. Nel carcere rimangono nascosti otto italiani, ma Parkerson comprende che è tempo di mandare a casa la gente, finché gli obbedisce ancora. Sale su un tram rovesciato in Congo Square e annuncia i nomi degli undici «giustiziati». Ogni nome è accolto da grida di esultanza. «Vi prometto - tuona Parkerson - che faremo i conti anche con gli altri. Ma ora non possiamo lasciare che la situazione degeneri. Avete fatto il vostro dovere. Se avrò bisogno di voi vi chiamerò. Adesso andate, e che Dio vi benedica». Sulle spalle di un manipolo di seguaci, Parkerson viene portato in trionfo mentre la massa comincia a disperdersi. Dopo due ore i corpi dei due impiccati vengono recuperati, ed esposti con gli altri morti in uno stanzone dove i curiosi vengono ammessi a turno. Le donne di New Orleans intingono nel sangue, per ricordo, i fazzoletti ricamati. Undici italiani sono stati linciati. Tre erano stati riconosciuti innocenti dalla giuria: Joseph Macheca, Antonio Marchesi e Antonio Bagnetto. Altri tre avrebbero dovuto essere nuovamente processati, in quanto non era stato raggiunto un verdetto: Pietro Monasterio, Antonio Scaffidi, Emmanuele Polizzi. Cinque erano in attesa di giudizio: Giacomo Caruso, Rocco Geraci, Francesco Romero, Loreto Comizzi, Carlo Traina. Gli otto superstiti escono dai nascondigli. Nel giro di qualche settimana saranno tutti liberi: le accuse saranno lasciate cadere senza altri processi. Charles Matranga, il boss del fronte del porto, si è salvato celandosi sotto un mucchio di immondizia nella sezione femminile. Sarà ucciso qualche anno dopo in un regolamento dei conti ma la sua famiglia diventerà sempre più potente. Uno dei figli, Henry Matranga, prenderà il controllo del racket dei locali notturni e acquisterà almeno una benemerenza nel 1917. Comprerà nel banco dei pegni di Rampart Street la prima cornetta per un giovane aspirante musicista di sua scoperta, Louis Armstrong. Gaspare Marchesi, 14 anni, viene condotto in lacrime nell'ufficio del direttore del carcere, dove si trovano alcuni giustizieri, ormai placati. Uno lo informa che il padre Antonio è stato ucciso. Secondo l'accusa, Gaspare avrebbe avvertito con un fischio gli assassini dell'arrivo di Hennessy. «Credo che non fischierai più, ragazzo mio», osserva qualcuno. «Sono innocente - grida il ragazzo - e anche mio padre lo era». L'Italia si rassegna A Washington, i particolari del linciaggio sono in prima pagina su tutti i giornali della sera del 14 marzo. Quella stessa sera l'ambasciatore italiano, barone Francesco Saverio Fava, protesta con il segretario di Stato James Blaine e si sente rispondere che la vicenda riguarda le autorità della Louisiana, non il governo federale. Due giorni dopo Fava consegna una nota del presidente del Consiglio dei ministri, marchese Antonio di Starabba Rudini, che esige la punizione dei colpevoli e un indennizzo per le famiglie delle vittime. La risposta è negativa, e il 25 marzo l'Italia minaccia di richiamare l'ambasciatore. Un giornale della capitale, The Nation, riassume la reazione del congresso americano con una battuta del senatore Plumb del Kansas: «La partenza dell'ambasciatore non ci recherà più danno di quanto farebbe il venditore di banane italiano davanti alla Casa Bianca, se decidesse di tornare a casa». Qualche giorno dopo il barone Fava lascia Washington, salutato da insulti e vignette sarcastiche sulla stampa. Per ritorsione il presidente Benjamin Harrison richiama da Roma l'intera missione diplomatica americana. Negli Stati Uniti il disprezzo per gli immigrati italiani e per il loro paese cresce come una marea. Theodore Roosevelt, futuro presidente, definisce il massacro «una buona cosa». In vari Stati scoppiano disordini che arrivano al culmine l'11 maggio con il linciaggio di tre italo americani a Wheeling nella West Virginia. Il Washington Post fa dell'ironia sull'«esercito» con cui l'Italia, insultata, ha invaso gli Stati Uniti: un esercito di immigrati straccioni. Tuttavia a questo punto il grande pubblico fa una scoperta sconcertante. Le forze armate italiane sono, in realtà, molto più consistenti di quelle americane. In particolare la Marina ha una superiorità schiacciante, con undici corazzate di 14mila tonnellate ciascuna e altre 54 navi da guerra. La flotta degli Stati Uniti possiede soltanto tre navi degne di questo nome, per un totale inferiore alle 8mila tonnellate. L'esercito italiano conta due milioni e mezzo di soldati, quello americano meno di 130mila. Nel 1891, l'Italia ha un apparato militare di prim'ordine, mentre gli Stati Uniti non hanno mai preteso di svolgere un ruolo fuori dai loro confini. Ai giornali di Washington e New York giungono lettere di patrioti che offrono armi, denaro e sangue per un confronto che credono impari. «Mi rimane un braccio solo - scrive un reduce della guerra di secessione - ma posso ancora impugnare un fucile». «La mia vita - assicura un ex schiavo - appartiene all'Unione che mi ha reso libero». Il governo di Washington, come quello di Roma, sa bene che il rischio non esiste. Per vincere una guerra, sosteneva Napoleone, ci vogliono tre cose: soldi, soldi e soldi. E l'Italia non ha soldi, mentre gli Stati Uniti ne hanno tanti. L'economia americana scoppia di salute. Quella italiana è minata alle radici, e pochi mesi di tensione con il grande fratello d'oltreoceano le daranno il colpo di grazia. Il governo del marchese Rudini ha speso troppo per rincorrere un prestigio internazionale sproporzionato alle risorse del paese, si è indebitato per sostenere la corsa agli armamenti con l'impero austro-ungarico. Ora è in difficoltà, e le banche di Parigi e Londra vogliono essere rimborsate subito. L'Italia ha un bisogno disperato di vendere in America i propri prodotti, e di esportare anche uomini e donne cui la patria non può dare lavoro. L'ostilita' degli Stati Uniti fa precipitare la crisi che giungerà al culmine nel 1898 con l'insurrezione di Milano, annegata nel sangue dal generale Bava Beccaris. Il 7 settembre 1891, il marchese Rudini manda al presidente Harrison un messaggio segreto, conservato negli archivi americani. Non insiste più sulla punizione dei colpevoli del linciaggio, assicura che il suo governo è ansioso di normalizzare i rapporti e lascia capire che si accontenterà di salvare la faccia. Harrison non si cura di rispondere. Il 14 ottobre scrive al segretario di Stato Blaine: «Gli italiani hanno agito in modo sciocco e avventato, non dobbiamo aiutarli troppo nella necessaria marcia indietro». La verità è che il governo americano approfitta della situazione. Da molto tempo cercava di convincere il Congresso a stanziare i fondi per potenziare la Marina e l'esercito, ora, sull'onda del confronto con l'Italia, ottiene quello che vuole. In pochi anni la flotta degli Stati Uniti diventerà un formidabile strumento di conquista, che nel 1898 toglierà Cuba alla Spagna e si impadronirà di Portorico e delle Filippine. Sono i primi passi di un gigante destinato a dominare il mondo. Oggi, mentre un secolo di egemonia americana è giunto al termine e un altro inizia sotto i medesimi auspici, viene da sorridere al pensiero che per un attimo il gigante si sia misurato con la piccola Italia. Soltanto il 9 dicembre il presidente Harrison ritiene che sia venuto il momento di porre fine alla crisi. Nel «discorso sullo stato dell'Unione» inviato alle camere inserisce, come di sfuggita, una frase cruciale. Definisce «un incidente deplorevole e disonorevole» il linciaggio degli italiani di New Orleans. Il barone Rudini si affretta a telegrafare la propria reazione entusiasta. Harrison aspetta fino all'aprile successivo per annunciare che ognuna delle undici famiglie riceverà 2500 dollari. Sottolinea che non si tratta di un risarcimento, ma di una semplice elargizione. Il governo di Roma non chiede di meglio. In Italia, l'intera vicenda è presto dimenticata. I morti di New Orleans non vengono considerati degni di riabilitazione ma decine di migliaia di immigrati pagheranno il prezzo dei pregiudizi. Per molto tempo ancora, in America, italiano sarà sinonimo di mafioso, fino a prova contraria.




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